Una Trieste ferita al primo stop contro Reggio Emilia
Le assenze di Ross e Brooks pesano in modo decisivo su un risultato che Reggio Emilia conquista con merito
Le assenze di Ross e Brooks pesano in modo decisivo su un risultato che Reggio Emilia conquista con merito
Trieste inaugura con il botto il campionato della rinascita: conquistato lo scalpo dei campioni d’Italia
La Pallacanestro Trieste si impone nel big match della giornata nel Girone Rosso, facendo leva soprattutto sull’esperienza dei suoi uomini migliori nell’ultimo quarto PALLACANESTRO TRIESTE – TEZENIS VERONA 88-85 Pallacanestro Trieste: Bossi 5, Filloy 10, Rolli ne, Reyes 12, Deangeli 7, Ruzzier 15, Camporeale ne, Campogrande 3, Candussi 10, Vildera 6, Ferrero 0, Brooks 20. Allenatore: J. Christian. Assistenti: M. Carretto, F. Nanni, N. Schlitzer. Tezenis Verona: Stefanelli 12, Morati ne, Gazzotti 7, Gaijc 0, Devoe III 22, Esposito 16, Murphy 13, Penna 5, Udom 10, Bartoli 0. Allenatore: A. Ramagli. Assistenti: A. Bonacina, S. Gallea. Parziali: 23-23 / 20-25 / 20-20 / 25-17 Progressivi: 23-23 / 43-48 / 63-68 / 88-85 Arbitri: S. Nuara, A. Costa, F. Bonotto Articolo tratto da Tsportinthecity.it a firma Francesco Freni Partita dal rendimento ondivago per entrambe le squadre, questo scontro fra retrocesse che per entrambe costituiva una sorta di crocevia in chiave classifica. Inizio di marca biancorossa, con ottime percentuali al tiro e difesa blindata soprattutto sul perimetro, poi la mossa a sorpresa di Ramagli che aggiunge alla (prevedibile e prevista) zona una difesa aggressiva a tutto campo che porta notevole fatturato in termine di palle perse triestine. Secondo quarto nel quale l’inerzia viene riconquistata dagli uomini di Christian, che però, sul massimo vantaggio di +10, fa sedere Reyes gravato da due falli e si affida ad un inedito quintetto con due lunghi in campo: immediato contro break scaligero e corsia di sorpasso imboccata con decisione dagli ospiti che approfittano della dinamicità dirompente di Murphy ed Esposito che banchettano allegramente nel pitturato, dove Trieste non si raccapezza più concedendo a ripetizione attacchi al ferro e conclusioni ad altissima percentuale. Non che in attacco le cose vadano meglio: i biancorossi sembrano impacciati e poco pazienti, perdono la bellezza di 10 palloni, in più di un’occasione il portatore di palla si trova isolato e raddoppiato se non triplicato, spesso Trieste non arriva nemmeno al tiro, e comunque cala vistosamente le sue percentuali, con un numero di tiri liberi sbagliati che è quasi impossibile da commentare. I biancorossi rimangono a galla in entrambi i quarti grazie a canestri arrivati all’ultimo secondo (prima Vildera su tap in, poi una tripla di Ruzzier), ma il secondo tempo inizia in modalità horror sulla falsariga del caos visto nel primo tempo. Verona capisce che è il momento di affondare il colpo, raddoppia gli sforzi e l’aggressività in difesa, si affida al talento di Murphy sotto canestro e Devoe dall’arco e scava un gap di 12 punti con l’inerzia totalmente nelle sue mani ed il pubblico che inizia ad indispettirsi. Mentre Christian continua a ruotare velocemente i suoi uomini, Ramagli non può farlo fino in fondo, di conseguenza la lucidità dei suoi comincia improvvisamente a scricchiolare: i biancorossi prendono coraggio con un paio di conclusioni di Brooks, Ruzzier e Reyes, e soprattutto iniziano a difendere come assatanati, aumentando a dismisura la velocità del gioco anche perchè non hanno alternative. L’errore clamoroso di Verona, nel quarto decisivo, è accettare il cambio di ritmo, un ritmo che non è nelle sue corde e soprattutto è un suicidio quando hai solo il compito di amministrare un vantaggio importante e ti trovi contro guardie come Eli Brooks che fanno della transizione offensiva il loro territorio di caccia. Il gap viene velocemente riassorbito da Trieste, e la partita, per 6-7 minuti, si trasforma in una corrida giocata punto a punto, con nessuna delle due squadre capace di piazzare la fiammata decisiva. Ma a risolverla, quando i palloni cominciano a scottare, non possono che essere i giocatori più esperti, quelli che questo genere di finali li hanno vissuti decine di volte in carriera. Ruzzier illumina la regia, Filloy subisce fallo per due volte sul tiro da tre segnando 5 dei 6 tiri liberi che gli vengono concessi. Vildera, che torna quello nuova versione dopo la pausa a Bologna, conquista rimbalzi in attacco che valgono platino, Reyes semina il panico nel pitturato, tutti i rimbalzi in difesa sono preda di un giocatore in canottiera rossa. Verona non trova più il modo di attaccare il ferro e deve affidarsi esclusivamente a conclusioni da lontano, che entrano più grazie al talento infinito di Devoe che per il modo in cui vengono costruite, ma alla lunga anche questi tiri finiscono di entrare. I due possessi di vantaggio con i quali Trieste entra negli ultimi due minuti vengono gestiti con intelligenza senza che Verona dia mai l’impressione di poter effettivamente ribaltare ancora una volta l’inerzia ed il punteggio, con i due punti in palio rimangono (meritatamente) in Via Flavia. E’ una vittoria nella quale Christian ottiene molto dal collettivo senza doversi necessariamente affidare al grande protagonista di turno come avvenuto in passato. Brooks, Candussi e Bossi nel primo tempo, un altalenante Deangeli (che si danna in difesa e trova un paio di conclusioni apprezzabili sebbene alternate a qualche ingenuità di troppo), Ruzzier, Filloy, ancora Brooks, Reyes ed un muscolare Vildera a rimbalzo nel secondo permettono prima di rimanere in linea di galleggiamento evitando di sbandare definitivamente nel momento di massimo sforzo scaligero, poi di ricucire in brevissimo tempo il break ed infine di gestire con pazienza ed esperienza l’esiguo vantaggio conquistato nel finale. Sono in effetti ben cinque i giocatori triestini andati in doppia cifra, ma non è solo nel bottino di punti realizzati che va analizzata questa vittoria, mai come contro Verona maturata grazie alla somma di piccoli particolari, ad esempio nell’aver saputo approfittare degli errori tecnici e di gestione della partita commessi dagli avversari. Alla fine, in sala stampa, Ramagli ne individuerà ben 9, elencandone qualcuno e facendone coloritamente intendere qualcun altro, senza chiarire se derivino da suoi errori di valutazione o da una cattiva esecuzione sul campo da parte dei suoi giocatori del piano partita, anche se tutto sommato il particolare non ha eccessiva importanza, se non quella di dimostrare come anche ad altre latitudini la conduzione tecnica è ben lungi dall’essere infallibile. Come contro Udine (ma con una prestazione decisamente migliore, sebbene ancora costellata da innumerevoli angoli da smussare) la squadra di
“Scugnizzi per sempre” è un assoluto capolavoro. Me ne frego altamente di quelle che possono essere inesattezze storiche, parzialità, “abusi” romantici o ricostruzioni non perfettamente fedeli. Qua siamo di fronte ad uno spaccato sportivo a cavallo fra anni ’80 e ’90 reso emozionante dalla capacità di toccare i tasti giusti, quelli che hanno reso lo scudetto di Caserta nel ’91 un meraviglioso capitolo della commedia dell’arte sportiva italiana. Nella corposa produzione c’è tutto: una storia fatta di sacrifici e di tante dolorose cadute, una realtà di provincia che si riscatta con talenti locali, forestieri arrivati da lontano divenuti più casertani di Gentile ed Esposito, idoli che prescindono dal risultato sportivo, un patron (Giovanni Maggiò ndr.) visionario in grado di remare controcorrente, scommesse sportive vinte ma non senza strascichi emotivi. L’ascesa della piccola Caserta, insinuata nel potere del nord rappresentato dall’Olimpia Milano, con strafottente esuberanza, è una costruzione dal basso, dalle fondamenta…quelle rappresentate simbolicamente dalla “reggia” del basket casertano, il PalaMaggiò, eretto in 100 giorni fra la diffidenza generale. La virtù di un settore giovanile curato come si deve, l’innata poesia di chi da ragazzino ha ancora un sogno in tasca, un pallone sottobraccio e un espediente per materializzare la passione, in questo caso la bocchetta di sfiato del cesso di un bar. Siamo noi negli occhi di Gentile ed Esposito da ragazzini, sognatori e irriverenti, siamo noi nelle ore consumate su un treno speciale ad inseguire un momento da ricordare per una vita con la sciarpa al collo, siamo noi che cerchiamo di portare a termine il progetto di un padre, siamo noi che ci troviamo trent’anni dopo abbracciandoci forte per una battaglia combattuta assieme, nella stessa trincea, che non conosce sbiadite temporali. Uscirei dallo stereotipo, forse un po’ troppo reiterato nel film, della “Milano ladrona”, in quanto debole tesi difensiva verso una rappresentante di una pallacanestro italica che faceva giurisprudenza anche in Europa; così come il possibile furto in finale di Coppa delle Coppe con il Real Madrid. Di fronte c’era un certo Drazen Petrovic da 60 punti, la sfiga è stata incrociarlo… tutto là. “Scugnizzi per sempre” è un crescendo di pathos ed emozioni, i silenzi sono nettamente più espliciti delle parole, gli occhi dei protagonisti il linguaggio più sincero. Azzeccata l’idea di “rubare” imbarazzi, come quello di Sandro Dell’Agnello ritrovando Oscar Schmidt o la chiacchierata di coach Marcelletti con il brasiliano. Per chi ama questo sport, anche meno religiosamente del sottoscritto, DEVE fare questa immersione, possibilmente in apnea, tutta d’un fiato, perché diventa veramente difficile abbandonare un viaggio così unico. E’ brutto vivere di ricordi, ma in un’epoca sportiva dove tutto è fugace, effimero… questa produzione rappresenta il più bel romanzo da trovare in una soffitta impolverata. Perché? Perché chi vinceva versava lacrime di commozione e non inchiostro per firmare nuovi contratti, chi vinceva suggellava una storia vissuta con tutte le cicatrici, chi vinceva non scordava e non lasciava indietro nessuno, chi vinceva… era una città intera. Raffaele Baldini