(Foto credit Sito Ufficiale Pallacanestro Trieste)
Articolo tratto da Tsportinthecity.it a firma Francesco Freni
PALLACANESTRO TRIESTE – ACQUA SAN BERNARDO CANTÙ 83-72
Pallacanestro Trieste:Bossi, Filloy 11, Rolli ne, Reyes 19, Deangeli, Ruzzier 18, Camporeale ne, Candussi 8, Vildera 20, Ferrero, Menalo, Brooks 7. Allenatore: J. Christian. Assistenti: M. Carretto, F. Nanni, N. Schlitzer.
Acqua San Bernardo Cantù: Baldi Rossi 8, Berdini 5, Del Cadia ne, Nikolic 11, Nwohuocha, Tarallo, Bucarelli 7, Hickey 12, Burns 2, Young 22, Cesana 5. Allenatore: D. Cagnardi. Assistenti: M. Costacurta, T. Sacchetti.
Parziali: 20-14 / 20-14 / 23-19 / 20-25
Progressivi: 20-14 / 40-28 / 63-47 / 83-72
Arbitri: G. L. Miniati, M. Attard, A. Costa.
Alla fine, la squadra di Serie A che gioca in A2, in Serie A ci va davvero dominando senza timori Gara 4 contro Cantù. E’ apparentemente una favola a lieto fine quella che giunge a compimento davanti a 6200 tifosi in delirio, ma a differenza di una favola il clamoroso risultato raggiunto dalla Pallacanestro Trieste dopo 402 giorni esatti dalla caduta di Brindisi di fantasioso ed inventato ha ben poco. Al contrario, è figlio di una rinascita programmata minuziosamente, costruita in modo sorprendente ed innovativo, di un lavoro instancabile e di un processo di apprendimento e crescita al quale è stato dapprima necessario mettere fondamenta solide sulle quali costruire un finale di stagione fra i più incredibili e memorabili nella storia della Pallacanestro Trieste. Dieci partite autoritarie, nove vittorie di cui sei in trasferta, in cui la squadra prima sorprende, poi travolge ogni avversaria, in un crescendo di entusiasmo autoalimentante, approfittando sì di un po’ di fortuna (alla quale aveva peraltro pagato un conto salatissimo durante la stagione regolare) ma senza che il vantaggio di affrontare squadre prive di alcuni uomini chiave costituisca l’elemento determinante di un risultato che Trieste raggiunge, è bene ribadirlo anche perché è concetto condiviso pure dagli avversari, con pieno ed incontrovertibile merito, e che con ogni probabilità avrebbe conquistato in ogni caso.
Una promozione figlia soprattutto del pragmatismo tutto americano di una proprietà che ha avuto la voglia di reagire subito, di un General Manager che non ha passato anni a fare il dirigente ai New York Knicks senza imparare il significato prezioso della parola resilienza, di un allenatore dapprima sconosciuto, poi incompreso, successivamente osteggiato, apertamente contestato per finire osannato, che però nel suo percorso ad ostacoli a 10 mila miglia da casa, lontano dalla famiglia, in un paese nuovo, con una lingua nuova da imparare, in una nuova casa, con nuovi amici ed un nuovo modo di vivere da metabolizzare non ha mai deragliato, non ha mai smesso di sorridere, di cercare di trovare il lato positivo, di spronare i suoi giocatori a far meglio. Di esporsi in prima persona facendo fronte allo tsunami di critiche che piovevano copiose su una squadra ad un certo punto oggettivamente incapace di esprimersi, con l’umiltà di ascoltare ed apprendere senza per questo snaturare la sua filosofia sportiva ed il suo modo di fare pallacanestro. E che ora dovrà fare gli straordinari giorno e notte per imparare a conoscere squadre e segreti di una nuova categoria della quale, di nuovo, sa poco o nulla….
Una promozione figlia, anche, della coerenza granitica di Michael Arcieri, che sapeva di aver speso la sua credibilità da miglior dirigente dell’anno investendo su un coach ed una squadra dei quali nel luglio del 2023 solo lui intravvedeva pienamente le potenzialità, ma che nel periodo peggiore della stagione, ad inizio 2024, ha sbandato paurosamente rischiando più volte di deragliare fra gli sbeffeggi della piazza. E’ nel momento peggiore, quello delle sconfitte contro una banda di universitari o in palestre difficili da trovare su Google Maps, che Arcieri compie il suo capolavoro, ignorando ostentatamente la bufera, dimostrando una classe molto più anglosassone rispetto alla sua origine italo-americana, continuando a dare fiducia al suo team, confrontandosi quotidianamente con esso, cercando insieme le vie d’uscita ma creando un argine, una protezione verso l’esterno. E, soprattutto, continuando ad affermare seraficamente anche allora -fra lo stupore e l’ironia generale- quello che un paio di mesi dopo si sarebbe materializzato sotto gli increduli occhi del mondo della pallacanestro: “stiamo lavorando per arrivare al completo, in salute e tecnicamente pronti al 5 di maggio. Vogliamo giocare fino a giugno“. Diavolo di un americano. Del resto, se la pallacanestro se la sono inventata loro, un po’ di vantaggio devono averlo preso.
Un trionfo che porta il marchio di cinque ragazzi che 402 giorni fa piangevano lacrime amare sul pullman che li stava portando all’aeroporto di Brindisi dopo una delle più grandi delusioni della loro carriera. Tre di loro, oltretutto, protagonisti di una bruciante retrocessione proprio nella loro città, particolare che aggiungeva dispiacere al lutto sportivo collettivo. Cinque ragazzi che la scorsa estate hanno raccolto senza esitare la sfida lanciata loro dal nuovo GM, quella di risalire immediatamente, compito rischioso perché ad altissima probabilità di fallimento. Uno di loro, un gigante barbuto tanto feroce in campo quanto buono fuori da esso, al termine di Gara 4 di finale, è il “pistolero” e miglior marcatore dell’incontro, nonché senza dubbio il giocatore più migliorato fra gli 11 del roster. Un’altro, El Diez, eletto meritatamente MVP delle Finals: un figlio della città partito da questo parquet alla conquista di traguardi importanti in top club per tornare a casa sua e portarla per mano fuori dal pantano nel quale era precitato assieme ad essa. Un terzo, un capitano apparentemente troppo giovane per affrontare da condottiero due stagioni terrificanti, ma dotato invece di attributi da veterano, sempre in prima fila ad affrontare la tempesta. Un altro ragazzo che sul più bello, quando arrivano i playoff conquistati anche grazie al suo contributo pur non al termine della sua migliore stagione, si vede soffiare il posto da un ragazzino croato arrivato in corsa, ma che rimane sorridente, continua a dannarsi l’anima in allenamento, si fa trovare pronto in Gara 3 in semifinale, festeggia in divisa stravolto dalla felicità al momento della premiazione. Infine, un playmaker sempre messo in discussione, ad un certo punto accantonato nelle rotazioni, ma sempre pronto a scattare come una molla quando il coach decide di dargli fiducia. Non ce ne vogliano le star Justin Reyes, giocatore illegale in A2 che non si è sottratto al ruolo di match winner designato ed Eli Brooks, arrivato a Trieste da rookie solo sulla carta. Ariel Filloy, il gaucho impassibile capace di tirare fuori dalla spazzatura canestri ignoranti come solo un sudamericano può immaginare. Giancarlo Ferrero, il capitano in pectore, nonché uomo di fiducia di Michael Arcieri, un uomo che il popolo di Varese ha fatto di tutto per non vederlo migrare a Trieste, e che ora a Trieste medita di mettere radici. Il friulano triestino patoco esperto in promozioni Francesco Candussi, che quando dieci anni fa Michele Ruzzier spiccava il volo a suon di triple verso l’Olimpo era solo un ragazzino di belle speranze che vestiva una canottiera dello stesso colore e con lo stesso simbolo di quella con la quale ha alzato la coppa oggi. Questa incredibile impresa appartiene, un po’ di più, ai cinque coraggiosi che l’hanno voluta più di tutti. Il cerchio è chiuso, il karma è compiuto. Un pensiero, oggi, va anche a Marco Legovich, anche lui triestino protagonista della disavventura sportiva come i suoi ex cinque giocatori e che forse più di loro avrebbe voluto rimediare subito rimanendo su quella panchina per ripartire. Siamo sicuri che -anche da lontano, o magari nascosto sugli spalti- la sirena del quarantesimo minuto di Gara 4 lo abbia aiutato a chiudere la ferita aperta nel suo cuore giuliano.
E’ una vittoria anche per Trieste ed i suoi tifosi? Ni. I quasi 13.000 che hanno popolato il Palatrieste negli ultimi tre giorni trasformandolo in una bolgia soprattutto nell’ultima partita impressionano ma non debbono abbagliare. Non è di certo stata la miglior stagione per il pubblico biancorosso, probabilmente ancora scosso dalla retrocessione e deluso da anni di risultati che a Trieste vengono sostanzialmente riassunti da un eloquente “voio ma no poso”. Tutto giusto, ma i meno di 1700 spettatori di qualche partita nella fase ad orologio (un paio di mesi fa, non un decennio), i tentativi di forzare il blocco degli steward per passare alle vie di fatto con la dirigenza dopo la sconfitta con Roma, le offese, gli striscioni, i cori di dileggio, ed infine il frazionamento in mille fazioni polemiche fra loro non fanno certo di questa stagione una fra le più memorabili per il popolo del Palatrieste. Ma, quello sì, potrà essere spunto di riflessione su quanto valore abbia il concetto di pazienza, magari imparando proprio da coloro che fino ad aprile erano nell’occhio del ciclone. Ed, inoltre, sull’importanza di amare e sostenere la propria squadra e la sua maglia anche, anzi soprattutto, nei momenti più difficili. Se la Serie A sul campo è stata conquistata, quella sugli spalti è ancora un traguardo da raggiungere, sebbene sia ampiamente alla portata e ci siano ottime basi da cui partire.
Oggi però, è solo tempo di godere e di festeggiare. E’ una serata che rimarrà indelebile nella storia dello sport triestino al pari delle promozioni dell’Hurlingham, dell’Oece, della Stefanel, della Lineltex, dell’Alma. Una serata che molti dei ragazzini che vivono le emozioni di queste ore potranno raccontare fra decenni: io c’ero.